Relazione “Scuola, educazione e laicità. Un impegno dimenticato ma imprescindibile per la democrazia italiana” tenuta dall’allora Patriarca di Venezia, Angelo Scola, a Brescia il 18 febbraio del 2008.

Libera scuola
“In una società veramente laica, il compito dello Stato non è quello di difendere un preteso diritto a essere l’unico gestore della scuola, ma quello di garantire l’educazione”.

1. Un significativo conflitto di linguaggi
Dobbiamo subito fare una constatazione preliminare. Una delle più qualificate esperte di problemi scolastici, Luisa Ribolzi, afferma che quando si ragiona intorno al carattere della scuola, colpisce come avvenga una sorta di distorsione semantica negli aggettivi che ad essa si riferiscono, a seconda che vengano adoperati a partire dai diversi approcci ideologici. Distorsione che non di rado genera conflitto.

Facciamo qualche esempio. Una scuola “libera” è, secondo alcuni, una scuola libera da vincoli ideologici di tipo identitario. Per altri, invece, la scuola è libera proprio in quanto può trasmettere un sistema coerente di valori senza costrizioni da parte dello Stato.

Per gli uni, una scuola è indipendente perché in un contesto di finanziamento statuale centralizzato può operare senza preoccuparsi di competere sul “mercato” per affermare la propria qualità; per gli altri, è indipendente perché grazie alla sua qualità (intesa come capacità di rispondere in modo adeguato ai bisogni degli utenti) resta sul “mercato” senza dipendere dallo Stato.

2. A proposito di laicità
Non è necessario sottolineare che questo significativo conflitto di linguaggi trova il suo zenit nell’uso del termine laico. Anche questo termine è impiegato con significati assai diversi e spesso contraddittori.

Sommariamente possiamo dire che il concetto di laicità oggi più diffuso poggia su un presupposto acritico e non dichiarato. Considera che il rapporto tra il singolo individuo portatore di diritti fondamentali e lo Stato in una società democratica plurale si possa correttamente dare solo a patto di non introdurre tra i due – cittadino e Stato –, in nessuna forma, altri elementi di riferimento e di mediazione. In questo contesto, la religione – o più in generale una ben identificabile Weltanschauung – costituirebbe un “terzo incomodo”, tollerabile solo se ridotta a fatto privato proprio del singolo individuo. E’ la fase ulteriore del processo per cui “la globalizzazione enfatizza una soluzione di neutralità culturale: per la democrazia occidentale odierna tutte le religioni sono ‘uguali’ (in-differenza). La sfera pubblica è dichiarata neutrale verso le religioni (…) Alle diverse religioni si chiede e si impone di considerare il loro universalismo come un fatto privato, interno al loro ambito di influenza”.

In ambito scolastico questa posizione implica necessariamente l’opzione per una sorta di sistema scolastico neutro o indifferente che, rinunciando a una proposta di senso, considera l’educazione come addestramento o apprendimento di technicalities. Senza poter qui esaminare analiticamente i termini di questa proposta, non ci si può impedire di rilevare che sistemi di questo tipo sono destinati a finire nelle secche di un certo razionalismo intellettualistico che ancor oggi, con diverse varianti, inficia una grande parte delle istituzioni educative. Esso si esprime, da una parte, nella pretesa di “attrezzare” l’educando fornendogli una sempre più articolata gamma di competenze; dall’altra nel considerarlo come una sorta di monade autosufficiente, sciolto da ogni legame. Nozionismo ed abilità tecnico-pratiche da fornire ad un individuo separato: a questo si riduce spesso l’educazione nelle nostre società sviluppate.

La domanda che si impone allora è chiara: è accettabile l’equivalenza tra laicità e neutralità o indifferenza?
Per rispondere a questa domanda è necessario chinarci, sia pur sommariamente, sulla natura del fenomeno educativo come tale, perché lo consideriamo, di diritto o di fatto, imprescindibile punto di riferimento di un sistema scolastico.

3. Educazione come relazione
a) Rendere possibile un’esperienza integrale
“La cosa più importante nell’educazione non è un ‘affare’ di educazione, e ancora meno di insegnamento” così Jacques Maritain, andando al cuore della questione educativa, individua l’inquietante eppure appassionante paradosso di cui ogni vero educatore è ben consapevole. E, subito dopo, ne indica la ragione: “L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso”.

La categoria di esperienza – assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine – è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l’affermazione di tutte le possibilità di connessione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà. Realtà in tutte le sue dimensioni, intesa quindi come esistente umano, esistente storico, esistente vitale, esistente cosmico. Dimensioni cariche di implicazioni tra le quali principale è Dio.

Certamente una tale posizione implica un giudizio positivo sulla realtà. Il reale, al di là delle tensioni drammatiche che lo attraversano, al di là della sua stessa contingenza, è un bene. L’educazione, per dirla con la celeberrima definizione di Jungmann, è introduzione alla realtà totale (“eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit”) proprio perché la realtà totale corrisponde – “corrispondenza” è la parola che traduce la cum-venientia dei medioevali – al cuore (alle esigenze costitutive) dell’uomo. E corrisponde perché è per il bene dell’uomo. Quindi è un positivo.

Come si rivela questa percezione della positività del reale? Si rivela a partire dalla sua natura di avvenimento. Nel reale si dona il mistero dell’essere, perciò ogni manifestazione del reale si presenta come evento (dal latino e-venio) che interpella la nostra libertà provocandola ad aderire. In questo senso l’educatore, cercando di introdurre l’educando in un’esperienza integrale della realtà, lo conduce progressivamente a coglierne la natura propria, quella cioè di essere, in tutte le sue manifestazioni, segno del mistero. E per i cristiani il volto del Mistero è quello del Padre che ci è stato rivelato da Gesù.

b) Natura inter-personale dell’educazione: autorità e tradizione
Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura inter-personale del processo educativo. Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale. Imprescindibile punto di partenza perché l’educando possa percorrere la strada dell’integralità dell’esperienza è la cura che le generazioni adulte si prendono delle nuove generazioni. L’immagine più efficace di cosa sia questa cura della catena di generazioni, è l’immagine dell’Eneide dove Enea lascia Troia distrutta con Anchise sulle spalle e il figlioletto Julo per mano. L’educazione vede all’opera la catena di generazioni. Come giustamente è stato affermato, l’educazione domanda tradizione.

Essa consiste, come diceva Blondel, in un luogo di pratica e di esperienza, vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione rettamente intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. E’ innovativa. Essa garantisce, come diceva Giovanni Paolo II, la “genealogia” della persona e non solo la sua “biologia”. Assicura la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza, imprescindibile condizione per suscitare civiltà.

Si capisce allora il peso che nella proposta educativa ha il fattore dell’autorità, termine di cui è bene non dimenticare il significato etimologico più accreditato. Il sostantivo latino auctoritas deriva dal supino del verbo latino augere che significa “far crescere”. La persona autorevole, infatti, incarna quell’ipotesi esistenziale di lavoro, cioè quel criterio di sperimentazione dei valori che la tradizione mi offre; l’autorità, quando è autentica, è l’espressione efficace della trama di relazioni comunitarie in cui si origina la mia esistenza. In questo caso l’educando sente l’autorità come profondamente con-veniente alla sua persona.

c) Natura inter-personale dell’educazione: partecipazione e rischio
L’integralità dell’esperienza, nel rispetto della natura del reale, non è garantita solo dal fatto che l’educando sia chiamato al paragone con una proposta vivente e personale veicolata dalla tradizione – sempre innovativa – attraverso una figura autorevole. E’ necessario che l’educando si impegni personalmente con tale proposta.

E’ importante capire che in questo passaggio non è semplicemente in gioco un metodo educativo più adeguato, o più consono con le legittime aspirazioni di “autonomia” dei giovani. La portata dell’affermazione a questo proposito è molto più profonda. Si tratta di riconoscere la struttura ultima del rapporto tra l’io e la realtà. In forza di tale struttura, se la libertà dell’uomo non si mette in gioco, gli è negato l’accesso alla verità. Infatti, se la verità è l’evento in cui realtà ed io si incontrano e se tale evento si dà sempre e solo attraverso la mediazione del “segno”, non esiste, ultimamente, possibilità di conoscere il reale (verità) senza una decisione.

In proposito l’esegeta Schlier ricorda che il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre solo e sempre ad una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi d’interpretarlo. Infatti un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso.
Così l’inevitabile rischio dell’educazione apre l’educando alla massima creatività.

d) Il dia-logo educativo
In questo modo l’educazione si attua nel rapporto tra l’educatore e l’educando sempre situati in un contesto interpersonale comunitario. Si tratta di un dialogo tra libertà.

Martin Buber, che con Ebner e Rosenzweig è annoverato tra i cosiddetti maestri del pensiero dialogico, afferma che l’autentico dialogo è uno “scambio profondo con il reale inafferrabile”. Il dialogo come ambito educativo costituisce sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone), il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). Scambio reso possibile dalla stessa realtà che, per il suo carattere di segno, non è mai meccanicamente afferrabile. Non esiste vero dialogo senza che si mettano in gioco la libertà dell’educatore e dell’educando nell’incessante paragone con il reale. Se mancasse uno solo di questi tre fattori il trittico dell’educazione verrebbe inevitabilmente meno. Se manca la libertà, integralmente giocata, sia dell’educatore sia dell’educando, il dialogo diventa essenzialmente monologo; se manca l’immersione nella realtà è preclusa la strada all’esperienza.

A partire da questa concezione del dialogo educativo e del percorso fin qui sinteticamente compiuto è ora possibile ripensare il rapporto tra educazione e laicità. Dovrebbe infatti risultare più chiaro che l’equivalenza tra scuola laica e scuola neutra o non identitaria è inaccettabile. Semplicemente perché una tale scuola non può esistere, per l’impossibilità di prescindere dalla natura propria del rapporto educativo. In altre parole, la scuola si struttura sempre all’interno di un riferimento valoriale, di un quadro – o forse di una cornice – di significato.

Un’educazione neutra è, di fatto, impraticabile. Se, come abbiamo mostrato, alla base di ogni educazione sta il concetto di relazione educativa, intesa come rapporto fra chi apprende e chi insegna (in genere, ma non sempre, un giovane e un adulto), in questa relazione, che fiorisce su una trama articolata di rapporti, il senso sta alla base di ogni possibilità di apprendimento.

4. Un sistema scolastico laico
Quali conseguenze derivano da una proposta come quella accennata in vista di un ripensamento del sistema scolastico italiano che possa essere espressione adeguata di una nuova laicità imprescindibile nell’odierna società plurale?

a) Due modelli

L’affermazione dell’impraticabilità della scuola neutra non significa che nella società plurale debba esistere un unico modello educativo. Semplificando possiamo dire che oggi, in Italia, esistono due modelli educativi.

- Pluralismo nella scuola unica di Stato

Il modello educativo dominante e, di fatto, oggi prevalente perché in pratica identificato con la scuola unica statale (la parità giuridica infatti, pur rappresentando un passo importante, senza la parità economica non genera di fatto una effettiva pluralità scolastica), si fonda su questo presupposto pedagogico: la scuola deve rispondere alla domanda di formazione di una comunità che si riconosce nello stesso universo culturale di valori civili, norme e comportamenti, e quindi condivide anche una certa idea di educazione civica. Questo universo può essere identificato, nella sua espressione minimale o massimale – a questo proposito ci sono delle notevoli divergenze –, con il quadro costituzionale di una determinata democrazia.

Ovviamente coloro che sostengono la scuola unica di Stato conoscono bene il carattere plurale delle nostre società. E in forza di questo dato propongono nella scuola unica di Stato il modello del pluralismo di visioni che si confrontano. Propongono il “pluralismo nella scuola” opposto al “pluralismo delle scuole”. Il pluralismo è sostanzialmente reso possibile grazie al paragone di visioni di vita diverse, talora giustapposte, ma considerate parimenti legittime. Il mix delle idee proposte, e della loro vicinanza/lontananza ai valori familiari, è lasciato totalmente al caso. Così si immagina una sorta di miracolistico effetto per cui i contrasti si comporranno in una armoniosa unità, soprattutto al termine del processo educativo, consentendo all’educando di sviluppare autonomia e senso critico. Questo però è il risultato che si auspica. Invece ciò che spesso avviene è un conflitto reale tra le diverse posizioni in campo.

Si tratta di un modello che io considero, oltre che in sé sbagliato, inefficace pedagogicamente in ordine alla ricerca, all’insegnamento e allo studio delle diverse discipline e materie. Questi pilastri della scuola domandano un principio unificatore. Comunque questo è il modello largamente dominante oggi.

- Pluralismo delle scuole

Poi c’è un altro modello, quello generalmente praticato dalle scuole cattoliche (ma sicuramente anche dalle scuole montessoriane, steineriane, e dal movimento delle free schools), che è teso a garantire, in una società sempre più differenziata, la possibilità di seguire una proposta educativa che riconosca ai soggetti dell’educazione (o alle loro famiglie, quando i diretti destinatari siano troppo giovani per esprimere una scelta) una coerenza con una precisa visione di vita che, tenendo conto dei valori irrinunciabili di cittadinanza su cui si basa un paese, consenta un reale sviluppo della persona.

In queste scuole si fa una chiara proposta sintetica educativa interpretativa del reale e si invita lo studente a verificarla e a paragonarla a 360 gradi, secondo tutte le forme moderne oggi concepite e concepibili, pienamente consapevoli del contesto di società plurale in cui il sistema scolastico è inserito.

Siccome i ragazzi sono chiamati da mille agenti educativi (pensate alla televisione, a Internet, ecc.) ad un continuo confronto tra diverse Weltanschauungen, tra diverse visioni di vita, in questa scelta non c’è nessun rischio di chiusura, tantomeno la preoccupazione di creare un bel recinto in cui custodire il ragazzo. C’è invece la convinzione pedagogica che davanti ad una chiara proposta interpretativa sintetica del reale si educa meglio. Si studia e si impara meglio. A questo proposito il filone di ricerca sul successo scolastico riscontra la benefica influenza sull’apprendimento di un clima scolastico unitario e di una impostazione condivisa.

Questo modello scolastico promuove, inoltre, la vitalità della società civile. Infatti consente di uscire da una situazione che è vessatoria per molte famiglie, dal momento che “la combinazione fra l’obbligo di frequenza, la struttura burocratica, e un apparato abnorme si sostituisce alla scelta delle famiglie… tutte le famiglie possono scegliere il cibo, i vestiti e la casa mentre quando si tratta di lealtà, intelletto, valori fondamentali – in una parola quando è coinvolta l’umanità dei bambini – lo stato domina le ore fondamentali del tempo del bambino”, mentre il principio di sussidiarietà prevede che il processo educativo tenga sempre conto della voce dell’educando, espressa all’interno di una comunità decisionale che lo conosce e si prende cura di lui – normalmente la famiglia – con il contributo dei professionisti che hanno la responsabilità di comunicargli i diversi saperi e di sviluppare un preciso progetto educativo. Per quanto riguarda i bambini ad esempio, nelle scuole scelte per così dire dalla famiglia, il pregio principale, oltre alla libertà stessa, è che il bambino nella scuola si sente “a casa”, e quindi sviluppa empatia e impegno morale, consolidando un’identità capace di confrontarsi, e non, come temono alcuni, in contrasto con la sicurezza delle istituzioni, o isolando il bambino dal resto del mondo.
Questo è, dunque, l’altro modello presente nella nostra società.

b) L’odierno contesto culturale

Questi due modelli sono oggi chiamati a confrontarsi direttamente con un contesto culturale fortemente caratterizzato dal processo in atto – sottolineo la parola processo – che, in altri sedi, ho descritto con l’espressione meticciato di civiltà e di culture. E’ necessario riconoscere che l’elevata coincidenza fra il sistema di valori e significati propri degli studenti e dei docenti, che per decenni ha caratterizzato la scuola unica di Stato in Italia, oggi è drasticamente messa in discussione anche a partire da questo nuovo imponente processo. Infatti questa coincidenza è diminuita nel tempo, prima per il crescere della disparità ideologica fra genitori e insegnanti, ma anche fra genitori e genitori e fra insegnanti e insegnanti, con un processo che può essere definito come di “caduta dell’illusione dell’uniformità”, e poi – in modo più massiccio – per l’affluenza nella scuola di quote rilevanti di ragazzi stranieri di cui solo una minoranza proviene da paesi culturalmente vicini all’Italia.

I dati cambiano con grande rapidità e indicano una situazione così complessa che non è possibile immaginare una scuola unica e uniforme in grado al tempo stesso di trasmettere i valori della società di arrivo, e di rispettare quelli della società di partenza. Mi preme però sottolineare che limitare ai ragazzi stranieri il problema della rispondenza della scuola alla domanda di educazione è fuorviante: chiaramente in riferimento ad essi è più evidente il problema della conciliazione fra diritti della persona e doveri del cittadino, ma questo tema vale per qualsiasi persona e qualsiasi cittadino italiano.

c) Il compito dello Stato

In una società veramente laica, il compito dello Stato, per quanto riguarda il sistema scolastico, non è quello di difendere un preteso diritto ad essere l’unico gestore della scuola – scegliendo in questo modo il modello di pluralismo nella scuola unica di Stato –, ma quello di garantire l’educazione, esercitando innanzitutto un’azione di sostegno dei più deboli.

Così quando parliamo di libertà di educazione chiediamo che i due modelli possano avere gli stessi diritti e gli stessi doveri, né più né meno. Non ci interessa fare la battaglia ideologica su quale sia il modello più giusto, anche se non ci manca un’opinione in proposito. Vogliamo stare all’interno di un sistema scolastico che conceda ad entrambi i modelli parità di condizioni giuridiche ed economiche – sottolineo economiche – a parità di verifica da parte degli organi statuali competenti.

Mi sembra che la strada sia quella del coraggio di applicare fino in fondo il principio delle libertà realizzate sempre più invocato in tutti i settori delle democrazie laiche e plurali odierne. Lo Stato deve rinunciare in linea di massima a farsi attore propositivo diretto di progetti scolastici per lasciare questo compito alla società civile. Deve impegnarsi invece a garantire, attraverso opportune forme di accreditamento, le condizioni oggettive di rispetto della Costituzione, soprattutto l’equità nel diritto all’accesso e alla riuscita e la qualità delle proposte formulate. Lo Stato deve passare dalla gestione al puro governo del sistema scolastico. E’ necessario però affermare che le scuole libere, promosse da liberi attori in forza del principio di sussidiarietà, dovranno attuare anche il principio di solidarietà per garantire l’effettivo e qualificato accesso di tutti soprattutto all’istruzione gratuita obbligatoria. E gli organi statali saranno chiamati, attraverso il processo di accreditamento, a rigorose verifiche.

Concretamente questa proposta significa non espellere le famiglie dall’educazione, ma fornire loro più mezzi (informazione, sostegno economico…). Nel momento in cui ai genitori viene impedito di scegliere, il controllo dell’educazione passa di fatto in mano agli insegnanti e ai burocrati, detentori delle competenze tecniche, per i quali può essere maggiore il rischio di abbattere e non di potenziare la partecipazione, conservando lo status quo, per massimizzare i propri benefici.

5. Un ambito di lavoro comune
La proposta di un sistema scolastico veramente laico che renda possibile nei fatti la coesistenza di questi due modelli, lungi dall’essere un campo di battaglia nel quale opporsi accanitamente, può diventare un’occasione preziosa per un lavoro comune da parte dei diversi soggetti all’opera nella società plurale. E lo può diventare proprio a partire dal riconoscimento del protagonismo della società civile e del ruolo necessario dello Stato. Le diverse ermeneutiche presenti nella società civile possono concorrere a dar risposta a due domande fondamentali. In primo luogo occorre interrogarsi su come e dove si costituisce una solidarietà capace di dare vita a un progetto educativo. E questo mette in campo il dinamismo della società plurale sul quale non possiamo soffermarci. In secondo luogo si tratterà di garantire che i progetti educativi dialoghino tra loro e rispettino un codice comune. Per quanto riguarda la diffusione delle virtù di cittadinanza, è vero che “una società stabile e democratica è impossibile senza un grado minimale di istruzione, e senza la conoscenza e la diffusa accettazione da parte dei cittadini di un insieme di valori comuni. L’educazione può contribuire ad entrambi”. In questo ambito lo Stato democratico deve realizzare un equilibrio tra il ruolo di unificatore e quello di garante della diversità delle tradizioni, nei confini di una comune cultura civica.

E’ nell’interesse della società e delle singole persone che le tradizioni religiose e culturali vengano mantenute: lo Stato non deve incoraggiare o scoraggiare queste identità, ma solo accertare che non siano in contrasto con il valore pratico del vivere insieme garantito dalle procedure democratiche pattuite, proprie dello Stato di diritto. Così, ad esempio, è giusto che lo Stato si preoccupi di evitare che le scuole finanziate con denaro pubblico attuino delle forme di discriminazione religiosa o razziale, ma non può farlo imponendo “una cultura unica, secolarizzata, di basso profilo valoriale e dottrinale praticamente a tutti, tranne a quelli che possono pagarsene una diversa”.

La capacità della società autenticamente “laica” – perciò tesa a valorizzare il permanente racconto e confronto tra tutti i soggetti sociali in campo in vista di un’adeguata vita buona – di assumere questi compiti eserciterà, assai più che le (mancate) riforme di sistema, un importante influsso sulla qualità del sistema scolastico, ma soprattutto sulla qualità dell’esperienza umana che consente.

La parità scolastica integralmente assunta e la pista dell’autonomia di cui per ora esiste solo il tracciato, se portata con coraggio fino in fondo, può rappresentare una strada percorribile al fine di condurre al traguardo di una autentica libertà di educazione nel nostro Paese.